Quando il Silenzio Diventa una Scelta: il Fenomeno del “Quiet Quitting”

Foto di Kristina Flour su Unsplash‍ ‍

C’è una sensazione sempre più diffusa nei luoghi di lavoro: quella di essere diventati invisibili. Non inutili, ma irrilevanti.
Le persone continuano a svolgere le proprie mansioni, rispettano le scadenze, partecipano alle riunioni. Ma smettono di dire cosa pensano davvero. È il fenomeno del quiet quitting, una forma di disimpegno che cresce quando i lavoratori scelgono di non esprimere opinioni, feedback o preoccupazioni, anche quando avrebbero qualcosa di importante da dire.

Secondo diverse ricerche internazionali, una quota significativa dei lavoratori a livello globale si dichiara poco o per nulla coinvolta nel proprio lavoro e/o afferma di non sentirsi ascoltata dal proprio management.

Uno dei fattori più rilevanti di insoddisfazione resta la retribuzione. I salari, in molti Paesi europei, non hanno tenuto il passo con l’aumento del costo della vita. Il potere d’acquisto dei lavoratori si è ridotto notevolmente negli ultimi anni, mentre la richiesta di flessibilità, disponibilità continua, e carichi di lavoro elevati è aumentata sempre più. Lavorare oltre l’orario contrattuale senza un riconoscimento economico o simbolico adeguato è ormai la prassi, e alimenta frustrazione e senso di ingiustizia. Il risultato è uno squilibrio crescente tra impegno e ricompensa, che porta molte persone a ridurre volontariamente il proprio coinvolgimento.

A questo si aggiunge l’assenza di prospettive di crescita professionale. Molti lavoratori si sentono bloccati in ruoli statici, senza possibilità di sviluppo o di apprendimento. Il lavoro perde così significato e viene vissuto come una routine priva di stimoli, un obbligo più che una scelta.

Il lavoro da remoto e i modelli ibridi, se da un lato offrono maggiore autonomia, dall’altro hanno contribuito a rendere più labili i confini tra vita privata e lavoro. La reperibilità continua, la sovrapposizione degli spazi e l’assenza di pause reali aumentano il rischio di burnout e disconnessione emotiva.
Parallelamente, l’automazione e l’intelligenza artificiale stanno trasformando interi settori, generando nuove opportunità ma anche timori legati alla perdita di ruolo, di identità professionale e di valore percepito.

C’è poi un cambiamento culturale profondo. Per una parte crescente della popolazione, soprattutto tra le generazioni più giovani, il lavoro non è più il centro dell’identità personale. È uno strumento per vivere, non lo scopo della vita. In questo senso, il disimpegno non è necessariamente disinteresse, ma una scelta consapevole: la risposta a un sistema lavorativo percepito come incapace di rispondere ai bisogni di equilibrio, riconoscimento e senso.

In questo contesto, il quiet quitting si diffonde, trovando terreno fertile: non è un abbandono effettivo del lavoro, ma un ritiro emotivo. Si fa il minimo indispensabile, senza investire energie mentali o affettive oltre lo stretto necessario.

Le conseguenze per le organizzazioni sono tutt’altro che marginali. Quando le persone smettono di sentirsi parte attiva e di partecipare ai processi decisionali, le aziende perdono idee e spirito critico. L’innovazione rallenta, il clima si impoverisce e, nel lungo periodo, ne risente anche la performance economica.
Oggi non basta più offrire uno stipendio competitivo o qualche benefit aggiuntivo. I lavoratori chiedono ascolto, possibilità di crescita, flessibilità autentica e coerenza tra valori dichiarati e pratiche quotidiane. Soprattutto, cercano un significato nel proprio lavoro.
Ignorare questo cambiamento significa accettare il silenzio e il disimpegno come normalità. Raccoglierne il segnale, invece, può diventare un’opportunità: rimettere le persone al centro non come risorse da ottimizzare, ma come voci da ascoltare. Perché un’organizzazione che non ascolta, prima o poi, smette anche di essere ascoltata.

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